Quanti di noi hanno una inconsapevole paura dei ragni o dei serpenti? Quanti invece hanno avuto un attacco di panico, scambiandolo per un infarto?
Oggi nel mio blog voglio parlarvi dell’ansia, associata alla depressione, agli attacchi di panico e alle cosiddette fobie.
Il disturbo più comune che ritroviamo in un percorso di psicoterapia in una persona che viene a colloquio è una risposta ansiosa. Capita spesso di trovare dell’ansia anche abbastanza forte e invalidante. L’ansia non è altro che una risposta che noi tutti manifestiamo; è una risposta naturale e biologica dell’organismo perché serve a difenderci.
Se pensiamo a un grafico, come un ecg per esempio, con un range di normalità, abbiamo dei movimenti di ansia di abbassamento (in questo caso quando l’umore va verso la depressione) e di innalzamento che va in base a stati d’ansia più importanti di preoccupazione o di paranoia. A volte l’ansia si associa a dei contenuti per cui essa va in esubero. Possiamo associarla alla depressione perché si manifestano dei disturbi con movimenti dell’umore altalenanti e troppo frequenti per la persona, quindi fastidiosi: questo accade quando siamo in presenza di qualche situazione particolare o anche a causa di una conformazione propria della persona. Il disturbo depressivo è però cosa ben diversa dall’ansia e distinguiamo tra un disturbo depressivo maggiore o un disturbo depressivo reattivo. I disturbi d’ansia mista a depressione sono disturbi molto comuni di cui tutti avrete già fatto esperienza.
Quando diventano un disagio che non si gestisce più è il momento di sedersi davanti a un terapeuta e di parlare con uno specialista.
E’ frequente anche il manifestarsi dell’ansia associata ad attacchi di panico. L’attacco di panico viene definito come un episodio che somiglia a un infarto, cioè la persona all’improvviso avverte i sintomi o dell’angina pectoris o dell’infarto e la convinzione di stare per morire, di stare per soffocare.
Ciò può essere dovuto al fatto che la persona ha accumulato dietro delle cose che fino a quel momento o non ha guardato o non ha gestito correttamente e quindi l’ansia è cresciuta sopita sotto la sabbia. A un certo momento, non essendo più elaborata consapevolmente si manifesta inconsapevolmente, esordendo in un sintomo, in un dolore.
La persona non sa di avere un disturbo psicologico, pensa di avere un problema fisico. Non si riesce a respirare, c’è una sensazione di svenimento, tachicardia, la risposta psicogalvanica, l’aumento della sudorazione, la perdita della lucidità. I sintomi sono reali clinicamente e misurabili.
Il soggetto che ha esperito l’attacco di panico inizia a evitare i luoghi e le situazioni nelle quali si è manifestato la prima volta. Avviene quindi una situazione di ‘evitamento’ che è invalidante perché c’è la conseguente perdita di diverse autonomie, per esempio se l’attacco di panico è avvenuto in aereo, il paziente eviterà l’aereo.
Spesso l’attacco di panico, che è una manifestazione grave e cruenta (forse è meglio definirlo come un attacco d’ansia) avviene in macchina, perché per esempio si è stati testimoni di un incidente, e allora si evita di guidare; oppure si manifestano la paura di andare in bici o di salire in ascensore. Più evita la situazione più la paura crescerà e il soggetto tenderà sempre a evitare quella situazione.
La terapia in questo caso è di tipo cognitivo-comportamentale e il terapeuta opera una desensibilizzazione sistematica della paura, legata a un contesto specifico.
Poi ci sono delle paure che creano ansia, che si chiamano fobie, ma risalire all’origine della fobia stessa (per esempio dei ragni, dei serpenti, ecc.) è praticamente impossibile, perché la motivazione è nascosta in un cassetto profondo, all’interno dell’inconscio dell’individuo, e risiede in situazioni talmente antiche nella storia della persona che non riusciamo sempre a venirne a capo. Di solito cerchiamo di mettere l’individuo in una situazione vivibile, ma il disturbo non verrà risolto in via definitiva e si sposterà in un altro sintomo.
I disturbi che aumentano su una scala di gravità, correlati all’ansia, portano a un disturbo del comportamento, come ad esempio i disturbi ossessivo-compulsivi, che sono una forma grave, o il disturbo di dipendenza, dal gioco per esempio, o anche da dipendenza alimentare.
Infine, chiariamo bene la differenza tra trauma e ansia.
Il trauma è una situazione delicata e complicata che porta il paziente a non essere presente a sé stesso, egli non vive nel tempo presente, nel qui ed ora, è una sorta di dissociazione. In questo caso sia il paziente stesso che la famiglia si rendono conto che è necessario parlare con uno specialista per tornare alla normalità, per uscire da un vuoto e da un silenzio.
L’ ansia invece è un disturbo che è sempre presente.
I disturbi alimentari sono molto diffusi tra i giovani. Quando furono fatti i primi studi sulla psicologia da parte di Freud, le prime pazienti erano donne e la patologia prevalente era la sindrome catatonica, cioè paralisi. Nell’ipnosi, praticata da Freud, la paziente usciva dallo stato catatonico, rilassava gli arti, raccontava tutto o parzialmente del suo materiale inconscio, ma al termine della seduta ritornava al suo precedente stato di catatonia.
Freud si accorse che c’era un altrove da qui. Questa è la grande scoperta di Freud: l’inconscio.
La sindrome catatonica si è trasformata ed evoluta nel corso del tempo, così come i disturbi alimentari hanno cominciato all’inizio ad essere presenti solo per le donne, a volte correlati a diagnosi più gravi, mentre oggi sappiamo che di disturbi alimentari soffrono anche i ragazzi adolescenti. Quando la società impone dei modelli si manifestano questi sintomi che colpiscono particolari fasce d’età sempre minori, ovvero sta scendendo l’età di chi ne è affetto, e diventano forme miste.
Negli anni ‘80 si parlava solo dell’anoressia; alla fine degli anni 80 invece fece la sua comparsa la parola bulimia. Oggi c’è più consapevolezza, c’è stata una maggiore informazione. Se un genitore vede un figlio trasformarsi nell’atteggiamento verso il cibo può venire a parlarne con uno specialista. Prima di attaccare il figlio in prima persona, occorre curare la comunicazione del genitore e della famiglia.
La comunicazione in questo caso è spesso la chiave per la risoluzione del problema.
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